Cos’è la fisica quantistica (in parole semplici)

9 Marzo 2014 | Fisica e chimica

Introduzione

Abbiamo parlato spesso di fisica quantistica, per esempio raccontando delle realtà virtuali, di viaggi nel tempo e di particelle che muoiono prima ancora di nascere. Sono concetti nuovi che possono spaventare, ma dopotutto dobbiamo farcene una ragione: la fisica quantistica è entrata nella nostra vita e sarà sempre più presente; pensate per esempio ai computer quantistici, diventati ormai una realtà (seppure ancora come prototipi in fase di studio).

In questo articolo vedremo che il concetto di base non è poi così difficile da capire. Anzi, alla fine della lettura scoprirete che la fisica quantistica è estremamente affascinante, piena di potenziale e che racchiude un mistero ancora da scoprire.

Spiegare le basi della fisica quantistica con parole semplici è possibile. Fabrizio Coppola, nel capitolo tre del suo Il Segreto dell’Universo, lo fa in modo ammirabile, con esempi così chiari che anche un «comune mortale» poco abituato alla scienza è in grado di seguire. Rendiamoci conto, però, che una questione è spiegare cosa sia la quantistica e un’altra questione è capire perché funziona come funziona. In questo caso si tratta di un’impresa di portata enorme, visto che anche gli scienziati sono in alto mare.

Di seguito dovrò usare qualche termine tipico della meccanica quantistica, ma sarà accuratamente spiegato con degli esempi. Proprio perché sto cercando di rendere l’argomento il più semplice possibile, i più esperti troveranno alcune approssimazioni e termini non del tutto appropriati, usati più che altro per dare un’idea comprensibile al lettore.

La fisica classica e la fisica quantistica: differenze

Sappiamo che ogni cosa esistente è composta di molecole, che a loro volta sono composte di atomi e così via. Se continueremo a dividere le particelle, arriveremo a un certo punto al quanto. Il quanto è una particella così piccola che non può essere divisa (a differenza, ad esempio, dell’atomo che può essere scisso in protoni, neutroni ed elettroni). Come concetto è stato introdotto da Planck ancora nel 1900, è stato ripreso poi da Einstein ed è tutt’oggi sotto studio, a causa dei paradossi che comporta.

Paradosso. Sembra un termine fuori posto nel campo della scienza, dove tutto viene sperimentato più volte e quindi dovrebbe portare a misure precise. In realtà, le sorprese sono dietro l’angolo.

Nella fisica classica – quella che studiamo a scuola, per intenderci – possiamo sempre misurare con precisione un oggetto: la sua velocità, la sua energia, la sua posizione in un certo momento, ecc.
Immaginate un corridore: a ogni giro di campo, possiamo fermare il cronometro e sapere esattamente quanto tempo ha impiegato per compiere il percorso. Attraverso delle formule fisiche, potremmo sapere precisamente a che velocità è andato e persino in quale punto del campo si troverà tra 10 secondi se mantiene la stessa velocità.

Con la fisica quantistica tutto questo non è possibile. Quando parliamo di quanti, possiamo descrivere solo una “rosa di possibilità”. Riprendendo l’esempio del corridore, non sapremo mai qual è esattamente la sua posizione usando delle formule (cioè senza misurarlo direttamente): avremo invece a disposizione una serie di posizioni in cui potrebbe trovarsi. Il corridore ha una certa probabilità di trovarsi in una di queste posizioni.
In fisica quantistica si dice che un quanto si trova in uno spazio di Hilbert, cioè in uno «spazio di possibilità» e in uno «stato indefinito». In altre parole, c’è la probabilità che il quanto si tovi nel punto A o nel punto B, ma non avremo mai la certezza di dove si trovi finché non lo misuriamo.

Misurare per conoscere

Come facciamo allora a determinare la sua posizione? Semplice: lo misuriamo (usando strumenti di laboratorio). Non appena lo osserviamo, è come se il quanto “decidesse” quale posizione prendere tra le varie posizioni possibili. In linguaggio tecnico, si dice che al momento dell’osservazione, lo «stato collassa in uno dei potenziali autostati» – dove per autostati si intende, per l’appunto, quegli stati che permettono una misura precisa di quello che osserviamo.

Per farci un’idea precisa, riporto l’esempio completo messo a disposizione da Fabrizio Coppola nel suo libro; evidenzio in grassetto i punti chiave:

Consideriamo un elettrone che si trova in un certo sistema fisico e cerchiamo di misurare la sua energia in un dato istante. Prima della misura, esso non avrà un’energia definita, ma si troverà in uno stato potenziale che contiene (ad esempio):

– l’autostato di energia 850 eV, con probabilità del 20%;
– l’autostato di energia 860 eV, con probabilità del 35%;
– l’autostato di energia 870 eV, con probabilità del 45%.

Nota: eV significa elettron-Volt ed è un’unità di energia utilizzata in fisica atomica, nucleare e sub-nucleare. Per inciso, sono possibili stati molto più complessi di questo.

All’atto della misura del valore dell’energia, la natura dovrà “scegliere” uno dei tre possibili “autostati” dell’energia, ciascuno dei quali ha il suo valore (chiamato “autovalore”): 850 o 860 o 870 eV. Essi sono valori “quantizzati”, ovvero discreti o discontinui (in parole povere non sono possibili valori intermedi, come 865 eV). Pertanto lo stato iniziale è oggettivamente “indefinito” rispetto all’osservabile energia, poiché è una combinazione (o sovrapposizione) di tre autostati diversi, ed all’atto della misurazione dovrà “collassare” in uno dei tre possibili “autostati”, che danno valori validi dell’energia nella realtà fisica oggettiva. Ogni volta il risultato potrà essere diverso, e ciascun “autovalore” ha la sua probabilità di uscire.
La cosa strana è che lo stato in questione, che non ha un valore oggettivamente definito rispetto all’osservabile energia, potrebbe essere un autostato rispetto ad un’altra osservabile, cioè potrebbe dare un valore oggettivo, definito e certo.

Chi decide quale posizione deve assumere un quanto quando lo osserviamo?

Riassumendo, il quanto ha la probabilità di trovarsi in determinate posizioni e solo quando lo osserviamo “decide” di prendere una specifica posizione. Chi decide quale posizione deve assumere il quanto, una volta osservato?

La risposta è che la fisica non sa spiegarlo. Non è in grado di prevedere in nessun modo quale sarà la posizione scelta. È come se la scelta fosse derivata da un fattore casuale. Ecco perché si parla di principio di indeterminazione.

Finora abbiamo parlato di “posizione”, ma è un termine inappropriato e avremo dovuto più che altro parlare di “autovalori”, perché la misurazione può riguardare diverse proprietà del quanto: la sua posizione, la sua velocità, ecc. Qualsiasi proprietà stiamo cercando di misurare, questa sarà indeterminata (cioè entro un range di possibilità) fino a quando non la osserveremo.

C’è di più. Come abbiamo detto, delle particelle “comuni” possiamo ricavare allo stesso tempo posizione, velocità, ecc. Ma se cerchiamo di misurare contemporaneamente posizione e velocità di un quanto, non saremo in grado di farlo. O misuriamo la posizione, oppure misuriamo la velocità: l’altro valore rimarrà, invece, indeterminato.

La successiva domanda che salta in mente è: se non può prevedere il comportamento dei quanti, come fa lo scienziato a usare la fisica quantistica su cose concrete, per esempio per creare computer quantistici? Il fatto è che, mentre abbiamo risultati indeterminati per le singole particelle, riusciamo comunque a prevedere il comportamento collettivo di un sistema (cioè di milioni o miliardi di quanti che agiscono insieme).

Conclusione – Esiste una risposta?

La questione sembra assurda e gli scienziati stanno cercando da anni di scoprire cosa metta in moto la “scelta” finale che assume il quanto, cioè di capire cosa lo spinga ad assumere un autovalore tra i tanti possibili. Finora non hanno avuto successo, ma sappiamo bene che le grandi scoperte avvengono nel tempo con i continui tentativi.

Prima degli anni ’20, si pensava che le misurazioni fossero sempre oggettive, cioè valide indipendentemente dal fatto che ci sia o meno un osservatore; in questo caso, invece, è necessario l’intervento di un osservatore per ottenere la misura. La questione solleva, inoltre, altri paradossi fisici che non è il caso di spiegare in questo articolo.

Nessuna certezza o quasi

Pensate che ci sono stati veri e propri scontri verbali tra scienziati pro e contro. Lo stesso Einstein, che aveva contribuito alla nascita della teoria quantistica, aveva inizialmente rifiutato questa «idea assurda e non-oggettiva». Einstein non accettava l’intervento del caso ed è infatti sua la famosa frase: «Dio non gioca a dadi con il mondo».
Per tutta risposta Bohr, sostenitore della teoria, ribatté che «Non è compito degli scienziati dire a Dio come funziona il mondo, ma solo scoprirlo».

Abbiamo una sola questione certa (fino a prova contraria): è l’influenza di un osservatore a far collassare il quanto in un suo autostato. È come affermare che siamo noi a stabilire il comportamento dei quanti e, per estensione, di tutta la materia che ci circonda, dal più piccolo granello di sabbia alle immense galassie dell’universo.

Se possiamo far decidere quale valore far assumere ai quanti, non dobbiamo forse ammettere che esiste il libero arbitrio per l’essere umano? La questione è interessante e vale la pena di dedicarci un articolo a parte.

Fonti principali
Fabrizio Coppola, «Il segreto dell'universo»
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