La tappa di decompressione
I subacquei sanno bene che per immergersi senza rischio è necessario trascorrere un po’ di tempo a determinate profondità. Superato questo periodo – chiamato tappa di decompressione – possono riprendere a nuotare fino alla profondità successiva, dove dovranno trascorrere dell’altro tempo.
Il motivo della sosta è la presenza dei gas inerti nel nostro corpo, microbolle di azoto ed elio che devono essere espulse. In fisica sono due le leggi che ci aiutano a capire come funziona:
Un gas che esercita una pressione sulla superficie di un liquido, vi entra in soluzione finché avrà raggiunto in quel liquido la stessa pressione che esercita sopra di esso.
– legge di HenryLa pressione totale esercitata da una miscela ideale di gas ideali, è uguale alla somma delle pressioni parziali che sarebbero esercitate dai gas se fossero presenti da soli in un eguale volume.
– legge di Dalton (legge delle pressioni parziali)
In altre parole, il gas inerte cerca di compensare la pressione dell’acqua, ed è quindi indispensabile dare il tempo all’azoto di sciogliersi e ai nostri polmoni di farlo uscire. La profondità delle varie tappe di decompressione varia a seconda di quanto ci si immerge e della propria predisposizione fisica. In genere, comunque, per motivi di sicurezza i subacquei preferiscono fermarsi circa 5 minuti a 3-6 metri di profondità.
Una regola per evitare danni indesiderati è risalire gradualmente, nell’ordine di circa 9-10 metri al minuto. Un’altra cosa importante è lasciare al nostro corpo il tempo di “riposare” tra un’immersione e l’altra, tipicamente dalle 16 alle 24 ore.
I problemi di una mancata decompressione
Le pause permettono ai polmoni di espellere i gas inerti e se non diamo ai nostri organi il tempo sufficiente, le microbolle si espanderanno a causa della minore pressione che ci circonda. Più a lungo la sosta viene rimandata, più il rischio si innalza.
La patologia più comune è la malattia da decompressione (MDD). La mancata eliminazione di azoto nei tessuti del corpo, nella forma più lieve, crea prurito e arrossamenti, dolori alle articolazioni (che possono aumentare muovendo l’arto ma non diminuiscono se si lascia l’arto a riposo) e rigonfiamenti sotto pelle dovuti all’ostruzione dei vasi sanguigni.
Nella forma più grave, i danni potrebbero colpire il cervello o il midollo spinale: disturbi della visione, difficoltà di muoversi o di parlare, paralisi parziale del corpo, vertigini, nausea, difficoltà di ascoltare. Se il problema è profondo, si rischiano danni permanenti o addirittura la morte. In questo secondo stadio, solo la camera iperbarica può offrire un aiuto.
Ancora più pericolosa è l’embolia gassosa arteriosa (EGA), dovuta alle bolle di gas nella circolazione sanguigna. In questo caso il problema coinvolge i muscoli, che potrebbero anche lacerarsi, e li si avverte subito dopo aver raggiunto la superficie. Si prova vertigini, disorientamento e difficoltà di respirazione; il cuore pompa irregolarmente, esce sangue da naso e bocca, la visione si offusca e la pelle diventa pallida. Se la lacerazione coinvolge i muscoli dei polmoni, si sentirà un dolore al petto. Spesso si arriva alla perdita di coscienza. In questo caso la vittima deve essere trattata con l’ossigeno e portata subito in camera iperbarica.