SOMMARIO
Panoramica sul Buddhismo: filosofia, descrizione e i pilastri su cui si fonda
Il Buddhismo – La pratica e le considerazioni sulle Quattro Nobili Verità
Il Buddhismo – La teoria degli aggregati e della coproduzione condizionata
Introduzione
Descrivere il Buddhismo è abbastanza semplice. Comprendere la sua filosofia e i suoi pilastri portanti è già più complesso. Mettere in pratica gli insegnamenti fino in fondo, invece, è una questione per pochi privilegiati.
Messo in questo modo, il Buddhismo si mostra già come una religione fuori dagli schemi. Non prevede nessuna divinità da adorare e nessuna punizione divina per chi infrange le regole morali. Al contrario, nasce da un’analisi interiore e non dall’intercessione di un qualche dio.
Iniziamo con il dire quello che non è. Visto da fuori potrebbe sembrare una dottrina votata a se stessi più che al bene degli altri, un percorso «egocentrico e di comodo» per liberarsi dalla sofferenza anche a danno di chi ci circonda. Ecco alcuni dei pensieri (distorti) che nascono se lo si guarda in modo superficiale:
– gli obiettivi principali sono il distaccamento dal mondo e l’indifferenza verso quello che succede al di fuori del nostro piccolo spazio personale.
– lo scopo è di liberarsi dalla sofferenza con enormi sacrifici, trasformando il corpo in un guscio vuoto e diventando l’ombra di se stessi, senza emozioni.
Quello che è sbagliato è proprio il punto di partenza, e cioè vedere l’individuo come un elemento staccato dal resto del mondo. È bene che questo concetto sia chiaro prima di continuare a leggere: l’individuo è un tutt’uno con il mondo, non può esistere senza quello che lo circonda. Tutto quello che è stato e che è, influenza l’individuo in ogni momento. In altre parole, tra l’individuo e il resto del mondo esiste un continuo gioco di causa ed effetto, per cui è impensabile ritirarsi in se stessi dimenticando cosa ci sta influenzando.
Avremo modo di capire le conseguenze di questo pensiero tra non molto, anche perché è qui che si fonda l’essenza del Buddhismo.
I concetti che formano il Buddhismo sono davvero profondi e uniscono fede, scienza, filosofia e psicologia. Tutto parte dall’individuo stesso, da un’analisi interna, e da nient’altro. Chiamarla «religione» è riduttivo: «filosofia di vita» sarebbe più appropriato.
In questo articolo passerò in rassegna i suoi pilastri fondamentali, descrivendo in modo schematico le Quattro Nobili Verità e l’Ottuplice Sentiero (che compone l’ultima di queste Verità). Tra parentesi troverete i termini in lingua sanscrita; inoltre, ho inserito dei link per poter approfondire, in genere partendo da Wikipedia (dove possibile in italiano, alcuni in inglese).
Nel prossimo articolo entreremo nei dettagli, cercando di dare qualche impostazione pratica e un significato ai precetti delle Nobili Verità.
Gran parte delle informazioni sono state recuperate dall’ottimo libro Il Buddhismo, di Giangiorgio Pasqualotto, una lettura che consiglio per chi volesse iniziare a interessarsi all’argomento. Tenete presente che esistono svariate scuole nate dal Buddhismo, con ideologie e pratiche diverse; i concetti che vediamo sono in gran parte condivisi da queste ramificazioni, con qualche eccezione. Quello che voglio darvi è un punto di partenza abbastanza completo affinché possiate approfondire da soli.
Le Quattro Nobili Verità del Buddha
Il Buddhismo è nato con Siddhārtha Gautama Śākyamuni (conosciuto più brevemente come il Buddha, il «risvegliato»). Fu lui che per primo conseguì il risveglio (bodhi), cioè la consapevolezza che per raggiungere la verità è necessario seguire una via di mezzo, che sia lontana sia dall’esaltazione che dalla mortificazione dei piaceri: quindi niente culto dei piaceri ma neanche autopunizioni, perché entrambe queste vie distolgono dalla ricerca della verità e dunque sono dannose (akuśala).
Ma quali sono le verità grazie alle quali Siddhārtha riuscì a risvegliarsi? Il suo insegnamento si fonda su Quattro Nobili Verità, che in pratica sono quattro passi logici e sequenziali da seguire per rendersi conto del proprio stato di sofferenza e per liberarsene:
1. La presenza del dolore (duḥkha) nella nascita, nella vecchiaia, nella malattia, nella morte; è presente anche quando ci si trova assieme a quello che dispiace, quando ci si stacca da quello che piace e quando non si riesce a ottenere quello che si desidera. Questo dolore è avvertito allo stesso modo da tutte le creature senzienti.
2. Il dolore ha la sua origine nel desiderio ardente (tṛṣṇā o trishna), cioè nella ricerca ossessiva dei piaceri, dell’affermazione o al contrario della propria distruzione. Come abbiamo spiegato sopra, il Buddha riteneva dannose tanto l’esaltazione che la mortificazione dei piaceri.
3. La possibilità di estinguere (nirodha) questo desiderio, e quindi la sofferenza, attraverso il distacco.
4. Il desiderio ardente si può estinguere attraverso l’Ottuplice Sentiero (tra poco vedremo di cosa si tratta).
La compassione e l’Ottuplice Sentiero
Il Buddhismo racchiude l’idea della compassione (karuṇā), divisa però in due livelli:
– la verità come senso comune (saṃvṛtisatya): prevede delle norme per poter seguire il giusto comportamento morale nelle esperienze di tutti i giorni.
– la verità assoluta (paramârthasatya): un livello più avanzato in cui il comportamento è così radicalizzato che si riesce a seguire le norme senza sforzo.
Il primo livello di verità, quello più basso, si può raggiungere seguendo l’Ottuplice Sentiero (chiamato anche Sentiero di Mezzo, majjhimā patipadā). Si tratta di 8 consigli morali che aiutano, per l’appunto, a raggiungere la verità su come estinguere il desiderio ardente (fulcro della quarta Nobile Verità).
Un ottimo riassunto concettuale degli otto punti lo avete nello schema più sopra, recuperato dal sito di Meditazione Tibetana. Passiamoli in rassegna in dettaglio.
1. Giusta visione (samyag-dṛṣṭi)
Con “giusta” si intende «retta, esatta e completa» visione delle Nobili Verità. La giusta visione si ottiene quando si analizza e si comprendono questi due elementi:
– le prime tre Nobili Verità: si tratta in pratica di rendersi conto della realtà del dolore, che l’origine del dolore è il desiderio ardente e che il desiderio ardente può essere estinto con il distacco.
– l’altra cosa da capire è che ogni realtà è priva di sé (anattā), cioè non ha sostanza e non è autosufficiente (cioè ha bisogno di altre “realtà” per esistere). È un concetto meno complicato di quanto si immagini. Come abbiamo detto all’inizio dell’articolo, tutto è connesso, niente esiste da solo ma solo in funzione di altre esistenze. Quando si arriva a vedere la qualità anattā di ogni realtà, si capisce che «colui che si prende cura di se stesso si prende cura degli altri, e viceversa».
2. Giusta intenzione (samyak-saṃkalpa)
Ovvero il giusto impegno per riuscire a gestire il desiderio ardente, causa della sofferenza. Questo punto si raggiunge appieno grazie a tre elementi:
– il non attaccamento (upādāna) alle opinioni, alle regole, al sé e in particolare a quello che proviene dalle sensazioni, sia piacevoli che spiacevoli. Se non ci si attacca al sé (attā) si arriverà a vedere che ogni realtà è priva di sé (anattā). Una nota è d’obbligo: le regole sono necessarie, e infatti stiamo analizzando l’Ottuplice Sentiero (di fatto un insieme di regole), ma l’importante è non attaccarsi a essere facendole diventare un’ossessione; di fatto le regole sono un mezzo per raggiungere un fine e devono essere applicate in modo flessibile a seconda dei casi.
– la benevolenza (maitrī, cioè «amore») verso tutti gli esseri viventi.
– la non violenza (ahiṃsā). È da considerarsi non solo come il desiderio di non uccidere, ma anche di non offendere e in generale di non portare a esiti negativi. Da puntualizzare che anche il troppo aiuto è da evitare, perché può portare a conseguenze negative oppure perché è fatto per propria soddisfazione (cosa che, lo abbiamo detto, è da evitare).
3. Giusta parola (samyag-vāc)
Il detto «le parole feriscono più della spada» è esemplare: le parole vanno ponderate prima di essere pronunciate. Ecco perché in genere i buddhisti tendono a parlare con calma, dopo aver soppesato quello che hanno da dire. In ordine di gravità crescente sono da evitare: pettegolezzi, ingiurie e maleducazioni, calunnie, menzogne.
4. Giusta azione (samyak-karma-anta)
Come le parole, le azioni vanno soppesate. Non devono essere rivolte a raggiungere dei fini egoistici. In particolare si devono evitare le azioni contro la morale (sīla): non uccidere, non rubare, non avere rapporti sessuali illeciti, non offendere o mentire, non assumere sostanze che alterano la percezione mentale (perché impediscono di pensare con lucidità e di raggiungere la perfezione).
5. Giusto comportamento (samyag-ājiva)
Il comportamento in questione si intende verso gli altri. Si devono evitare le attività che danneggiano gli esseri viventi, tra cui la caccia e la costruzione o il commercio di armi (che saranno sicuramente usate per danneggiare).
6. Giusto sforzo (samyag-vīrya)
Per non uscire dal giusto sentiero di realizzazione della verità bisogna coltivare la volontà di evitare gli stati mentali negativi, sia verso se stessi che verso gli altri; al contrario, bisogna eliminare gli stati negativi già presenti e spingere verso quelli positivi.
7. Giusta presenza mentale (samyak-smṛti)
È necessario porre sempre attenzione, mantenere cioè la mente attenta e lucida. Per farlo, è indispensabile evitare le le influenze del desiderio e dell’attaccamento, perché alterano la percezione. L’attenzione consapevole deve essere rivolta:
– alle varie parti e fasi di sviluppo del corpo (kāya);
– alle sensazione ed emozioni (vedanā);
– alle idee e a tutto quello che è contenuto nella mente (dhamma).
Questa «attenzione consapevole» si può ottenere con la disciplina del respiro (ānāpānasati), ovvero meditando e pensando all’atto di inspirare ed espirare: lo scopo è di porre attenzione ai piccoli dettagli della realtà e di vedere la realtà stessa come un sistema dinamico, connesso.
8. Giusta concentrazione (samyak-samādhi)
L’atteggiamento corretto da usare si può raggiungere attraverso la meditazione, che porta a mantenere il controllo di se stessi. La concentrazione si raggiunge in quattro fasi:
– allontanamento dalle cose nocive (akuśala) e nello specifico dall’attaccamento (lobha) ai propri beni, dall’ostilità (dvesa) e dall’illusione (moha). Queste tre cose nocive possono essere contrastate rispettivamente con la generosità (danā), con la benevolenza (maitrī) e con la conoscenza (vidya) che si raggiunge attraverso l’analisi (vicāra) e la riflessione (vitarka).
– raggiungimento di una sensazione di gioia e di calma durante la riflessione. Questo risultato deriva dal punto precedente.
– imparzialità di giudizio (upekśā). Questo atteggiamento va a soppiantare la gioia che si era raggiunta nel punto precedente.
– sia l’imparzialità di giudizio che l’attenzione si mantengono in modo stabile.