A parità di ruoli nel lavoro, in media la donna ha un guadagno orario inferiore all’uomo. Per esempio in Polonia guadagna 91 centesimi per ogni dollaro dell’uomo, in Israele 81 centesimi e in Corea del Sud solo 65 centesimi. Il dato sembrerebbe dimostrare che la donna viene discriminata perché «così deve essere»: infatti percepisce molto meno proprio in quei Paesi dove gode di minori diritti.
Si potrebbe pensare che una delle cause sia il differente livello di istruzione, visto che i lavori più remunerativi richiedono (in genere) delle conoscenze adeguate e che in molti Stati la donna non ha accesso alle stesse scuole maschili. Ma mentre fino a metà del ‘900 poteva essere una scusante valida, oggi non lo è più per i Paesi sviluppati, perché con i movimenti e le proteste di emancipazione la donna ha ottenuto pari opportunità scolastiche. Anzi, i dati sembrano dimostrare che spesso la donna ottiene voti migliori dei compagni di corso.
Cause culturali e… biologiche
Un pensiero contorto duro a morire
In realtà la questione è complicata. Anche in quegli Stati dove uomini e donne godono di pari diritti, e dove la donna viene inquadrata allo stesso livello lavorativo dell’uomo, le disparità si assottigliano ma non scompaiono. Perché continua a essere discriminata in campo economico?
Il fatto è che da sempre il mondo del lavoro appartiene al maschio e l’idea si è così radicata nella società da diventare difficile da estirpare. I sondaggi mostrano che si tratta di un pensiero tanto maschile quanto femminile, per cui la discriminazione sessista in sé non c’entra. Un tempo la donna non usciva di casa, non lavorava e aveva una bassa istruzione con poche eccezioni degne di nota: la conseguenza è che la struttura del lavoro è stata creata a «misura di maschio» in cui d’istinto si immagina la donna non adatta a fare carriera.
Il sesso di nascita comunque ha un ruolo sempre più ridotto nella differenza di guadagni. Quello che incide di più è invece l’aspetto biologico.
I figli e la prospettiva dei figli
A partorire è, naturalmente, la donna e già di base questo rappresenta un ostacolo per essere assunta. Capita spesso che i piccoli imprenditori ci pensino due volte ad assumere una lavoratrice ancora in età fertile quando hanno a disposizione i curriculum di lavoratori maschi con le stesse competenze. Questo succede molto più dove si richiedono lavori qualificati, per i quali un’assenza sul lavoro per maternità potrebbe portare a una pedita economica. A volte l’imprenditore non è nemmeno consapevole di preferire l’uomo alla donna, è una scelta che dà per scontata.
Quando poi nasce un figlio ci si aspetta che sia la donna a occuparsene per prima. Anche quando entrambi i genitori lavorano full-time e si occupano insieme dei figli, i dati dimostrano che la donna occupa 9 ore in più a settimana per i suoi bambini, che si traducono in ben 3 mesi di tempo all’anno sacrificato per i figli. In una situazione come questa è ovvio che l’uomo abbia più possibilità di essere promosso, ottenendo un livello più alto e un maggiore stipendio. Per contro, è probabile che la donna debba rinunciare a certe promozioni o incarichi per mancanza di tempo.
Da lì è un divario che cresce a dismisura. In media l’uomo continua ad avanzare di livello in modo stabile, mentre la donna procede a singhiozzo, a volte addirittura retrocedendo o passando da un full-time a un part-time per motivi personali. Uno studio danese di inizio 2018 ha dimostrato come le nascite influenzino i guadagni futuri: la differenza tra le donne che partoriscono e le donne senza figli è enorme.
Riassumendo, la causa non è (solo) il sessismo ma la natura e la mentalità
Traendo delle conclusioni dai dati che sono il frutto di numerosi studi, si nota che il problema non è né il sessismo né una discriminazione di potere. La causa risiede caso mai nella società che vede una “mamma” meno produttiva (per quanto riguarda la carriera) di una donna senza figli. Il fatto che molte mamme ritengano giusto e naturale che le donne sacrifichino la carriera per i propri figli non fa che incrementare questa tendenza.
Finora ho presentato come un “problema” il fatto di avere uno stipendio più basso perché è così che viene definito, ma non sempre è davvero un problema, anzi: molte donne fanno delle scelte lavorative proprio in vista di un allargamento della famiglia e quindi a loro non pesa il fatto di non fare carriera. Gli studi si basano su una media totale, non sui singoli casi. In questo non c’è niente di male, se non che vanno a incidere psicologicamente sull’intera società che finisce per generalizzare su ogni lavoratrice con un pensiero del genere: «se così è sempre stato, vuol dire che è la norma e che così continuerà a essere». In ogni caso un conto è scegliere di guadagnare meno e un altro conto è non riuscire a guadagnare di più.
Quanto conta il sesso?
Resta comunque una lieve differenza discriminatoria legata al sesso, visto che in media la donna percepisce il 96% di un uomo di pari livello, per i vari motivi non biologici che ho elencato sopra. Si tratta di una causa dovuta anche a una vecchia mentalità radicata e che (si spera) sarà eliminata nei prossimi anni.
In Islanda nel 2000 è passata una legge che dà ai padri un benefit se prendono la stessa aspettativa di lavoro (stipendiata) delle madri: il divario di stipendio è diminuito subito di 9 punti percentuali, dimostrando che basta cambiare la mentalità per eliminare le differenze. Se le aziende si aspettano che sia il padre che la madre possano assentarsi dal lavoro allo stesso modo, non avranno motivo di discriminare l’uno o l’altro sesso.
Chiudo con una provocazione: sappiamo che in percentuale ci sono più maschi a occupare i posti decisionali e di potere, non solo in ambito lavorativo ma anche politico e legale. Cosa succederebbe sulla disparità degli stipendi se questa percentuale s’invertisse?